di Antonella Bellantuono & Massimo Ronzani
Nel discorso pronunciato il 16 agosto 2021, il presidente americano J. Biden ha definito l’Afghanistan “la tomba degli imperi”, evidenziando, da un lato, la natura imperiale degli USA e giustificando, dall’altro, la decisione di mettere fine alla ventennale missione statunitense nel paese. L’affermazione di Biden non solo risulta inesatta – Alessandro Magno, Gengis Khan e i loro successori governarono per secoli l’Afghanistan – ma getta anche la colpa dell’escalation talebana sulla natura intrinseca della popolazione e del territorio. Al momento, invece, è estremamente difficile trovare il colpevole di questo insuccesso politico e militare e serviranno attente analisi, nei prossimi mesi, per determinarlo.
Quello che si può invece provare a capire sono gli scenari geopolitici che si apriranno da questo evento e che riguardano, in particolare, il destino di due potenze che si stanno muovendo con pragmatica cautela per tutelare i loro obiettivi strategici: la Russia e la Cina.
Nonostante nella mente sovietica bruci ancora la sconfitta della guerra 1979-1989 che ha portato il generale Lebed a lasciare l’Afghanistan, la Russia post-sovietica si è sempre interessata alle vicende afghane avendo come prerogativa quella di proteggere la stabilità delle repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale e di evitare il diffondersi dell’Islam radicale nel suo territorio. Mosca investe tutt’ora nella sorveglianza dei confini tra Kirghizistan e Uzbekistan e Afghanistan e ha rinforzato le unità militari già due settimane prima della caduta di Ghani. Dopo la presa di Kabul, però, il Cremlino ha deciso di lasciare il proprio ambasciatore in Afghanistan al fine di mantenere un flusso di comunicazione con la governance talebana, anche se non ancora ufficialmente riconosciuta. Questa azione se da una parte potrebbe essere letta come un modo per sfruttare il disimpegno americano per diventare mediatori nel dialogo tra Occidente e talebani, dall’altro serve alla Russia a opporsi alla Cina che prevede di inserire l’Afghanistan nella nuova via della seta, entrando di fatto in competizione con Mosca.
La Cina, d’altro canto, si è mostrata da subito una valida alternativa a Washington, ergendosi a garante della stabilità afghana. Nelle ultime ore, inoltre, ha riconosciuto la lista dell’esecutivo talebano – che vede tra i ministri alcuni ricercati dall’ FBI e riconosciuti come terroristi dall’ONU – e annunciato un piano di aiuti per 31 milioni di dollari.
I dialoghi tra i talebani e Pechino sono in atto già dal 2015 e hanno favorito in queste settimane un rapido accordo tra le due parti, secondo cui la Cina si impegnerebbe nella costruzione di infrastrutture sul territorio afghano in cambio dello sfruttamento minerario ed energetico. La RPC è diventata di fatto l’attore economico primario inserendo Kabul nel corridoio economico Cina- Pakistan parte del progetto della “nuova via della seta”. Le conseguenze che questa situazione può portare non riguardano solamente il settore economico, ma anche quello militare. Il rischio, in particolare, sarebbe la nascita di una coalizione antioccidentale che vedrebbe schierati con Pechino, Afganistan, Pakistan e Iran. Questi ultimi due paesi, entrambi confinanti con l’Afghanistan, sono tra i più attivi nello scenario, ma non mancano entrambi di ambiguità, posizioni che sembrano mutevoli quantomeno nelle dichiarazioni ufficiali, ma che in realtà nascondono, neanche tanto, interessi e legami concreti.
Il Pakistan, o meglio il Servizio di Intelligence pakistano (ISI), è il principale sostenitore di molti gruppi talebani di etnia pashtun, ma è stato (è ancora almeno sulla carta) uno dei baluardi degli USA proprio contro il fondamentalismo islamico nella regione, non che storico paese di riferimento americano contro i sovietici prima e contro gli affari cinesi oggi.
Il legame tra talebani e Pakistan ha origini profonde, che risalgono alla nascita del gruppo fondamentalista nei primi anni Novanta. Le relazioni amichevoli tra le due parti non sono cessate con l’occupazione dell’alleato americano. Che dietro l’avanzata rapida dei talebani, soprattutto contro i tagiki nella valle del Panshir, ci sia lo zampino sul campo di corpi d’élite pakistani e droni da Islamabad pare essere questione confermata.
La famosa Rete Haqqani, un ramo criminale distaccato dai talebani (a volte anche rivale degli stessi in un classico scenario tra cartelli della droga quali sono), è tutt’ora la milizia armata maggiormente sostenuta dall’ISI da un punto di vista politico, militare, finanziario, per non dire istituzionale. Infatti, molti leader del clan Haqqani sono ospitati e protetti in Pakistan, in quanto sono considerati i principali e naturali mediatori con i talebani (che hanno l’ufficio politico a Doha in Qatar); una sorta di carta vincente da giocare nel governo dei mullah talebani (che ribadiamolo, sono divisi in più gruppi), per renderlo il più possibile allineato a Islamabad. Sarà tutto da capire infatti quale ruolo effettivo avrà Sirajuddin Haqqani come Ministro degli Interni in un governo dove i talebani di etnia pashtun e di vecchia scuola sembrano fare da padroni per spartirsi il potere da bravi signorotti (alla faccia del rinnovamento e dell’inclusione).
Per anni il Pakistan con i talebani ha portato avanti un doppiogiochismo che gli USA hanno tollerato fino ad un certo punto. Basti pensare che per il raid contro Bin Laden in Pakistan le autorità pakistane non furono avvisate. Tolleranza che potrebbe essere passata allo “zero” da parte della comunità internazionale occidentale. Tale considerazione sarebbe un danno irreparabile per l’immagine del paese, nonché causa di isolamento diplomatico (NB. Il Pakistan non ha ancora riconosciuto il governo talebano!). Un paese, ricordiamolo, ormai sempre più in mano ai cinesini.
Rimarrà da capire nel tempo quali saranno gli effetti di questo sostegno ai talebani nello stesso Pakistan, dove, oltre ad ospitare numerosi profughi afgani, negli anni diversi gruppi terroristici di matrice fondamentalista islamica hanno flagellato il paese con diversi attentati. I talebani potrebbero essere funzionali a contrastare e silenziare questi gruppi.
L’Iran dal canto suo non ha mai negato la soddisfazione di vedere la coalizione occidentale a guida americana fallire miseramente in terra afgana. Tuttavia, rimane un paese molto impegnato (anche qua almeno sulla carta) nella lotta contro i movimenti fondamentalisti islamici sunniti come Al Qaeda e Daesh. La presa talebana in termini di rapidità e immediatezza ha scosso, ma non sorpreso Teheran, che chiede sostanzialmente stabilità e “zero problemi” ai nuovi vicini. Ben conscio dei legami forti che molti gruppi talebani hanno con il Pakistan e l’Arabia Saudita su cui non può inserirsi, l’Iran cercherà di mantenere i buoni rapporti con i gruppi più affini culturalmente ed etnicamente (tagiki e azara), nonché con i talebani “più moderati” in termini di considerazione delle minoranze nelle quote di governo e nell’amministrazione, partendo dall’ipotesi che i talebani da soli e divisi non riusciranno mai a governare.
Infine, l’Afghanistan avrà un disperato bisogno di import petrolifero che il vicino iraniano potrebbe in parte soddisfare, ma che è pur sempre limitato dalle sanzioni USA. Proprio sul petrolifero potrebbero migliorare le relazioni tra i due paesi fortemente ostacolate dagli USA fin l’altro ieri.
In tutto questo nuovo scenario USA, Europa e NATO saranno costrette in breve tempo a ridisegnare le loro strategie, coscienti del fatto che l’asse euro-atlantico potrebbe non essere più sufficiente in questo nuovo scenario storico e geopolitico.
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