L’anarco-capitalismo (ancap) è per molti – moltissimi – liberali e libertari un concetto interessante. Mentre la frangia più vicina ai “libleft” considera gli ancap come bambini stupidi attraverso argomentazioni degne di un bambino delle elementari, l’area “libright” tende spesso a vedere l’anarco-capitalismo come un asintoto a cui tendere, ma il cui raggiungimento – per quanto affascinante – è impossibile.
Da Coase al Ponte Morandi. Senza compiere disamine sull’evoluzione del concetto di anarco-capitalismo, potremmo riassumere il suo senso con il teorema di Coase. Coase sosteneva infatti che la miglior gestione di qualcosa possa avvenire quando la sua proprietà è ben delineata; un esempio pratico e concreto della mala-gestione nella scarsa definizione possiamo trovarlo con la tragedia del Ponte Morandi a Genova: un battibecco tra Stato e privati a discutere su chi ricadesse l’onere della manutenzione straordinaria. È normale, una cosa che non si sa bene di chi sia riceve infinitamente meno cure di una di cui si conosce la proprietà… e volendo potremmo anche allacciarci a teorie di gestione urbana quale quella delle finestre rotte, ma il rischio è uscire un po’ di traccia. Il problema nella definizione di proprietà arriva con l’intervento statale, in quanto i suoi funzionari – addetti appunto alla migliore amministrazione del demanio – non saranno incentivati a svolgere decentemente il loro lavoro in quanto non possiedono ciò che amministrano.
Lo Stato come limite delle libertà. L’anarco-capitalismo nasce proprio a concretizzazione di tali teoremi. Ogni singola area dovrebbe avere una proprietà ben definita e lo Stato dovrebbe cessare di esistere, in quanto per definizione oppressore delle libertà: le tasse non differiscono da un’estorsione, mancando il criterio della volontarietà; le leggi non sono diverse da una limitazione di libertà, in quanto solitamente al di là delle leggi “di natura”. Insomma, l’anarco-capitalismo è un concetto estremamente solido, volendo applicare i criteri liberali e libertari quali quelli della supremazia del privato sul pubblico. Inutile far notare come la prima associazione di pensiero a tutto ciò sia come senza uno Stato non possano esservi leggi e pertanto un sistema anarco-capitalista diventerebbe una giungla di legge del più forte. Nasce quindi l’idea del NAP, il non-aggression principle, che sostiene che tutto sia concesso a patto che non si intacchino libertà, proprietà e incolumità altrui, se non attraverso il consenso delle parti interessate. Vi sarebbe pertanto un sistema di leggi non scritto, basato sull’applicazione di concetti insito nella natura umana. Per quanto affascinante, l’argomentazione manca di forza persuasiva: cosa mi fermerebbe da armarmi più degli altri e diventare un signore della guerra?
1648: il prodromo dell’assolutismo. Facciamo un passo indietro e torniamo alla proprietà. Abbiamo detto che, in un sistema ancap, ogni cosa è proprietà di qualcuno e – non essendoci Stato – quel qualcuno può farci tutto ciò che vuole. La Pace di Vestfalia del 1648 ha determinato che la sovranità sia data dal riconoscimento della stessa da parte degli altri sovrani, ma in questo caso vi sarebbe sovranità di fatto: chi potrebbe discutere di ciò che fa sul suo terreno una persona? E anche se potesse, chi potrebbe chiamare per impedirlo? Possiamo quindi dire che proprietà e sovranità, in un sistema anarco-capitalista, siano de facto sinonimi. Qui la parte affascinante: essendo io sovrano sul mio territorio, ne sono il suo monarca assoluto e pertanto potrò farci ciò che voglio. Il concetto ancap di assenza di Stato muore velocemente: lo Stato passa semplicemente di mano ed arriva quindi ad un privato con poteri assoluti. Cambia il nome, ma la sostanza è la medesima: il rischio di tirannia è più una certezza che una possibilità, seppur con una gestione privatistica anziché pubblicistica.
Qui è interessante come questo concetto di “Stato privato” sia perfettamente accettabile con i crismi libertari, ma sia stato contrastato dai liberali estremamente fortemente attraverso le spinte costituzionali – che peraltro han dato basi solidissime per gli Stati di stampo sociale, ma pure qui si andrebbe troppo fuori traccia. Come evitare dunque di passare dalla padella alla brace nel tentativo di privatizzare?
Il diritto consuetudinario medievale. La risposta arriva dal precedente storico. Fino a tempi relativamente recenti, il concetto di processo legislativo era un pensiero lontano. Per l’intero medioevo – per quanto concerne l’Europa continentale – il sistema giuridico si è basato su consuetudini germaniche messe per iscritto a formare le leggi dei singoli popoli: Franchi, Longobardi, Ostrogoti… ogni popolo aveva deciso di mettere per iscritto le usanze degli antenati e di metterle in pratica. Essendo – specie l’alto medioevo – un periodo di migrazioni, sorse giustamente il dilemma del sistema giuridico da adottare in caso di controversie. Un franco che avesse ucciso un burgundo in terra sassone, secondo quale diritto sarebbe stato processato? La consuetudine che prese piede fu quella della personalità del diritto, ossia che ogni individuo venisse giudicato secondo le usanze della sua gente. Ora, le conseguenze di ciò sono piuttosto ovvie: perché esistesse una simile libertà, i sistemi giuridici di tutta Europa dovevano essere straordinariamente simili, poiché in caso contrario si avrebbe potuto compiere impunemente reati non puniti secondo il proprio diritto ma solo secondo quello della tribù ospite. Insomma, nel continente europeo il diritto, seppur diverso, era in realtà molto simile. Carlo Magno tentò inutilmente di creare un diritto comune per l’Impero, ma non riuscì mai nell’impresa, che avvenne invece più di due secoli più tardi in Italia, con la scuola dei glossatori di Bologna. Ritrovato il corpus iuris giustinianeo, i più illustri giuristi dell’epoca si adoperarono per mettere a punto un nuovo sistema giuridico, il diritto comune. Le consuetudini germaniche vennero assorbite nel corpus iuris e questo nuovo ius commune divenne il sistema per l’intero continente.
È interessante notare come, fino al superamento dello ius commune, non venne promulgata grossomodo nessuna vera legge dalla caduta di Roma in poi. Certo, tra la tardo-antichità e l’alto medioevo i popoli germanici codificarono le loro usanze, ma queste erano già consuetudini consolidate; Giustiniano redasse il suo corpus iuris, ma la stragrande maggioranza di esso era relativo a leggi di epoca romana già esistenti. Per l’intera durata del medioevo nel continente non vennero virtualmente promulgate nuove leggi – seppur con un cambio di sistema giuridico intorno all’anno Mille -, limitandosi i sovrani a normative di valore gerarchico inferiore, quali atti amministrativi e decreti. Nessuno osò contraddire delle leggi così antiche e consolidate come il diritto romano o le consuetudini germaniche. Avendo già detto come i diritti si assomigliassero al punto di essere conciliabili nello ius commune, pare ovvio che questi si siano sviluppati con una medesima logica, una logica naturale che ritroviamo nel contemporaneo NAP degli ancap. Perché dunque il diritto naturale medievale era rispettato da parte dei sovrani ed il NAP contemporaneo non verrebbe invece rispettato? La ragione è nella fonte stessa del diritto e nella sua “tutela costituzionale”.
La Chiesa di Roma come argine al relativismo nel diritto. Durante il medioevo il cristianesimo cattolico imperava sul continente. Ogni monarca cercava l’approvazione del Papa di turno onde evitare il rischio di scomunica, scomunica che gli sarebbe costata la legittimità come sovrano. Proprio su quest’ultima cosa è il caso di soffermarsi, ossia il ruolo della Chiesa. La Chiesa fu l’unica istituzione di epoca romana occidentale che riuscì a sopravvivere mantenendo il suo prestigio, portando seco la plurisecolare tradizione giuridica romana.
Certo, le consuetudini germaniche poco avevano a che vedere con il diritto romano per quanto concerne l’evoluzione della scienza giuridica, ma i barbari stilarono i propri codici in latino, seguendo l’esempio della cultura romana ed importandone alcuni concetti interpretativi. Insomma, la Chiesa educò i barbari alle consuetudini giuridiche romane, operazione che fu possibile grazie all’approccio caratteristico del cristianesimo alla lettura biblica, ossia mediante analisi teleologiche già esistenti nel diritto romano. Per chi è meno esperto di filosofia del diritto – spiegato in soldoni ed in maniera sicuramente non esaustiva – l’analisi teleologica prevede un’analisi al di là dell’interpretazione letterale, prendendo invece in considerazione il senso di quanto scritto ed il contesto – sia esso linguistico, storico o geografico.
Un teologo cattolico non prenderà alla lettera quanto scritto nella Bibbia in sé, ma ne analizzerà il senso, la traduzione, il contesto storico, il contesto del libro ed ogni altro fattore prima di capire pienamente il senso del versetto, in maniera tale da estrarne la ratio e poterla applicare in contesti non menzionati esplicitamente ma assimilabili. Il diritto romano prevedeva un simile approccio e – a loro modo – lo facevano anche le consuetudini germaniche. La Chiesa consolidò l’approccio teleologico al diritto: se i messi terrestri del Signore lo applicavano alle Scritture, era ovvio che ciò andasse a braccetto anche col diritto. Fu così che diritto e religione iniziarono ad incrociarsi tra loro, ma non nel senso hollywoodiano di inquisizione e caccia alle streghe: i sovrani, nonostante nessuno potesse impedirgli di divenire tiranni, si adattarono al diritto esistente perché questo era talmente collegato alla religione da aver assunto una valenza divina. Il diritto era una cosa già esistente dall’inizio della memoria collettiva dei popoli, viene sostenuto dal Vicario di Cristo e la metodologia è la medesima rispetto a quella dell’interpretazione delle Sacre Scritture… non può non aver valenza divina, con questi presupposti. Fu così che, temendo di andare contro il volere di Dio e pertanto di rischiare di bruciare tra le fiamme dell’inferno per l’eternità, i sovrani tennero per buono il diritto che già esisteva, evitando di creare nuove leggi in quanto sarebbe stato come un tentativo di porsi sopra Dio.
Lo ius commune diventa divino. Fu così che i diritti europei – ed in seguito lo ius commune – divennero de facto diritto divino, riuscendo a conservare il diritto naturale intatto per un millennio. Il punto di rottura avvenne con la riforma protestante, di cui uno dei punti fondamentali è il “sola scriptura”, ossia che ha valore unicamente la legge scritta nella Bibbia, non l’interpretazione data ad essa. Naturalmente le Scritture non sono sempre esplicite e pertanto ad alcuni passaggi l’interpretazione era obbligata, causando non pochi problemi: mentre la Chiesa Cattolica era ed è unita, ogni singola chiesa protestante era ed è indipendente, lasciando un ampissimo margine di interpretazione biblica da pastore a pastore. La riforma protestante, con questi presupposti, causò non pochi problemi anche in ambito giuridico: se l’interpretazione biblica poteva essere personale, le basi bibliche al diritto trovate dalla Chiesa perdevano di significato e pertanto il diritto cessava di essere divino, divenendo di colpo umano. Tolti i freni “divini”, le monarchie – specie quelle protestanti – caddero presto nell’assolutismo e non si dovette aspettare molto prima che i monarchi si arrogassero il diritto di legiferare. Il contrappeso ai diritti alla proprietà – rappresentato dal diritto propugnato dalla Chiesa – venne definitivamente meno ed il diritto alla proprietà sfociò in tirannia in men che non si dica.
L’anarco-capitalismo, nella sua forma pratica applicativa, non può che essere rappresentato da una qualche forma monarchica di sorta proprio per la conformazione stessa del diritto alla proprietà. Allo stesso modo, una monarchia privatistica non può non correre il rischio di sfociare in assolutismo, pertanto il sovrano di turno necessita di un contrappeso. Non potendo materialmente forzare il proprietario a fare alcunché – in caso contrario, non sarebbe sovrano della sua terra e lo sarebbe invece chi lo forza -, questo deve volontariamente sottostare ad un set ben preciso di regole. Per gli ancap questo set è rappresentato dal NAP, tuttavia è irrealistico pensare che questo venga rispettato se non vi è tornaconto per il proprietario… ma per un cattolico il rispetto di questo set preciso di regole è d’uopo, seppur non forzato materialmente. Il miglior NAP attualmente – e storicamente – possibile è, dunque, il cattolicesimo, mentre l’applicazione pratica dell’anarco-capitalismo è la monarchia… e forse è per questo che l’area più “libleft” del quarto quadrante odia gli ancap: il loro odio verso il cristianesimo ed i re supera la loro comprensione dell’economia e del diritto.
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