Il XVI secolo fu uno dei secoli più affascinante della storia post-medievale. Il medioevo fu un periodo relativamente calmo, con i grossi avvenimenti “lunghi” nella loro applicazione, mentre nella sola prima metà del Cinquecento avvennero sufficienti fatti da stravolgere la storia successiva. Costantinopoli, ultimo baluardo bizantino contro l’avanzata ottomana, cadde nel 1453, uccidendo l’ultimo retaggio diretto dell’Impero romano d’Oriente. La rotta orientale cristiana venne interrotta, spingendo l’Europa a cercare vie alternative per il raggiungimento delle Indie; fu così che nel 1492 Cristoforo Colombo, per conto della Corona spagnola, scoprì le Indie Occidentali, quelle che oggi conosciamo come America. Il focus geopolitico passò dall’Europa a ciò che la circondava, aprendosi l’era delle esplorazioni. Il Cinquecento cominciò con queste premesse, rendendolo interessante anche solo per il suo prologo.
La fine del medioevo coincise con l’affermazione della dinastia asburgica come importante pedina sulla scacchiera europea. Dopo Federico II di Svevia il titolo imperiale aveva via via perso importanza, lasciandolo un retaggio più di prestigio che effettivo comando; nessuno fece troppe storie quando gli Asburgo se ne appropriarono e ne sancirono de facto l’ereditarietà. Gli Arciduchi d’Austria, forti del titolo di Sacri Romani Imperatori, iniziarono un piano intergenerazionale di matrimoni ed alleanze, pronti a raccoglierne i frutti con molta calma… molta calma che non fu necessario, in quanto già nel Cinquecento i piani iniziarono a funzionare. Carlo V d’Asburgo si trovò in pochi anni ad ereditare la corona imperiale, l’Austria, la Spagna, la Borgogna, i Paesi Bassi e la Lombardia, oltre ad innumerevoli feudi minori e l’impero coloniale ispanico in costante crescita. Gli Asburgo passarono in tre secoli da astanti di Federico II a protagonisti geopolitici europei.
Carlo V sognò la rinascita dell’Impero universale, della Res Publica Christiana, inimicandosi francesi, ottomani e protestanti… ma non è questo il reale punto. Quando abdicò gettò le basi per poter vincere questo conflitto su più fronti nelle generazioni successive. Dopo la Pace di Augusta del 1555 con cui sancì la tregua coi luterani, Carlo spezzò il suo impero tra il fratello – a cui andarono la corona imperiale e quella da Arciduca d’Austria – ed il figlio – a cui andarono la Spagna ed il suo impero coloniale. Perché tutto andasse a buon fine nel suo piano intergenerazionale, era necessario che la Spagna riuscisse a prosperare. Ecco, questo era un problema: le finanze spagnole erano terribili a causa degli sforzi nelle Indie Occidentali e non sembrava esserci una reale via d’uscita dalla situazione. Senza soldi le colonie non sarebbero riuscite a prosperare e se le colonie non fossero state prospere la Spagna sarebbe implosa a causa del debito della Corona. Era necessario che la Spagna trovasse una sua fonte di finanziamento, fonte in realtà ben presente nei domini asburgici. Paesi Bassi, Borgogna (passata al regno di Francia) e Lombardia – fatalità, tutti parti di quella che fu la Lotaringia – erano le aree più prospere d’Europa da secoli, rendendole zone contese tra la nobiltà europea. Realtà già industrializzate in grado di fornire mezzi sufficienti a finanziare una campagna massiccia come quella americana. La soluzione di Carlo fu ovvia: collegare il dominio di tali territori alla Corona spagnola, fornendo fonti durevoli di finanziamento alla Spagna, nonostante questa fosse culturalmente e geograficamente distante. È partendo da queste doverosissime premesse che si può analizzare il collegamento tra calvinismo, rivoluzione industriale e marxismo.
Da questi elementi si capisce subito un problema, ossia quello fiscale-federalistico: i proventi dei Paesi Bassi erano destinati ad un governo centrale, non all’area locale. Una misura necessaria agli occhi asburgici – che cercavano nel consolidamento spagnolo un futuro secondo fronte contro la Francia -, ma insensato agli occhi del cittadino olandese medio.
Iniziarono a sorgere i primi problemi tra Paesi Bassi e Spagna, problemi messi in secondo piano dalla Corona, troppo occupata ad annettere il Portogallo nell’Unione Iberica, sempre grazie alle brillanti politiche matrimoniali asburgiche. Nessuno prese troppo seriamente la faccenda olandese e qui venne l’inghippo. Mezzo millennio fa non esistevano realmente concetti etnici, se non quelli ereditati dai tempi tribali delle migrazioni barbariche: l’etnia sassone esisteva in quanto esisteva la tribù dei sassoni, ma non esisteva l’etnia austriaca, in quanto l’Austria era un semplice territorio e non risaliva ad una delle tribù originarie. Insomma, gli olandesi non potevano reclamare l’indipendenza per motivi etnici – non esistendo all’epoca un’etnia olandese e non essendo considerata la lingua come un vero e proprio distinguo -, pertanto il criterio per l’indipendenza venne trovato nelle ragioni religiose, esattamente come avevano fatto i principi protestanti ai tempi della riforma. Vi era però un problema non indifferente: Carlo V, con la Pace di Augusta, aveva sancito la libertà religiosa per i luterani, quindi la conversione al luteranesimo sarebbe stata completamente ininfluente. Andava trovata un’altra nomenclatura per poter richiedere l’indipendenza, scelta che cadde sul calvinismo.
Questo già sarebbe sufficiente a far capire che le tesi di Weber sul calvinismo non avessero reali basi, tuttavia – in chiave di lettura marxista – questo non è del tutto vero. Il fatto che i Paesi Bassi fossero già industrializzati smonta la tesi secondo la quale l’industrializzazione fosse figlia di Calvino, ma non esclude invece che il capitalismo – in ottica marxista – sia figlio proprio della riforma protestante. Prima di addentrarci ulteriormente nel discorso, avendo affrontato un excursus storico non indifferente, sarebbe il caso di approfondire due concetti fondamentali. Il primo tra questi è la dottrina calvinista, figlia di quella luterana. Lutero rigettò molte delle tesi della Chiesa, ma il punto fondamentale qui è il concetto della predestinazione che ideò. Secondo Lutero il nostro destino è già scritto e Dio non solo già sa se andremo all’inferno o in paradiso, ma conosce già in anticipo ogni aspetto della nostra vita, rendendo de facto il libero arbitrio un’illusione. Non avendo reale consapevolezza di ciò che andremo a fare, alcuni di noi sono già destinati al paradiso e gli altri all’inferno di default. Non abbiamo reale modo di cambiare tutto ciò, in quanto già scritto. Per quanto affascinante come concetto, il dilemma principale fu tentare di identificare chi dovrebbe andare dove: come possiamo sapere se siamo destinati all’inferno o al paradiso? Come facciamo ad avere un “feedback” sulle nostre azioni per sapere se servono o meno, visto che comunque il nostro destino è già scritto? Calvino si pose il medesimo dilemma e giunse ad una conclusione: l’unico modo per determinarlo era la ricchezza. La ricchezza, equivalendo spesso al benessere, era un ottimo metro di giudizio per determinare se Dio avesse in simpatia una determinata persona o meno. I ricchi sarebbero andati in paradiso, i poveri all’inferno. Certo, ho semplificato in maniera vergognosa l’intero pensiero calvinista, ma il succo interpretato da molti calvinisti dell’epoca fu proprio questo. Non fu assolutamente un caso se il calvinismo prese piede proprio nelle aree ricche d’Europa.
Il secondo concetto fondamentale da comprendere è quello di tutela della proprietà privata. Il diritto alla proprietà – in epoca medievale – aveva un valore simile a quello di conquista: potevi possedere qualcosa fintantoché tu fossi in grado di difenderlo. Una delle ragioni per cui è difficile delineare mappe medievali precise è anche questo: territori come i monti potevano benissimo non essere difendibili e pertanto nessuno poteva reclamarne una reale proprietà.
In questo contesto va inserito anche il concetto romano dell’usucapione, che prevedeva che l’usufrutto – se in buona fede – di un terreno per un dato periodo avrebbe portato ad un trasferimento automatico della proprietà sullo stesso. Fino a dopo il medioevo, il “tetto massimo” di patrimonio di un individuo era ciò che era in grado di difendere; qualora fosse stato superiore, non avrebbe dovuto sorprendersi in caso fosse stato rubato. La proprietà era indissolubilmente legata alla capacità di difenderla, nell’ordine naturale delle cose. Naturalmente questo rappresenta un problema: la difesa di qualcosa rappresenta un costo economico da sostenere, costo che va a sottrarsi ad altre attività più lucrative e destinato ad aumentare con la crescita della proprietà. Difendere la propria proprietà non è conveniente, può essere al più necessario. L’avvento del calvinismo in Olanda risaltò questa cosa: se per andare in paradiso devo diventare ricco, devo massimizzare i miei guadagni tagliando costi superflui, quali quelli della difesa della mia proprietà. Fu così che nei Paesi Bassi le imprese delegarono allo Stato la difesa della loro proprietà, permettendogli di crescere esponenzialmente. L’esternalità negativa venne affibbiata allo Stato, mantenendo lo stesso standard ma scaricando oneri e costi a qualcun altro.
La proprietà privata iniziò ad essere quindi tutelata dallo Stato, non più dai suoi proprietari. Il risparmio del costo della sicurezza e l’assenza di un limite massimo di patrimonio non fece altro che potenziare infinitamente il patrimonio degli industriali, desiderosi di accrescere la propria ricchezza più di quanto fosse per loro prima possibile. Nacque quello che Marx intese come capitalismo: imprese desiderose di incrementare la propria ricchezza e tutelate dallo Stato nel farlo. Questa ricerca di incremento dei guadagni ingegnò gli operatori dei settori industriali, spingendoli a creare nuove invenzioni prima dei concorrenti. Inutile dire che in poco tempo questo condusse alla rivoluzione industriale. Il problema della rivoluzione industriale fu proprio l’accelerazione creatasi nel tutto: non vi fu un tempo tecnico di adattamento, ma si passò da società rurali a società industriali nell’arco di pochissimi decenni. Gli industriali, non dovendo temere reazioni da parte del personale a causa della tutela statale, non si fecero problemi a sfruttare i dipendenti a livelli simili allo schiavismo. La creazione della ricchezza era tutelata dallo Stato, così come lo sfruttamento.
Pensare che senza questa tutela statale non sarebbe avvenuto il progresso tecnologico della rivoluzione industriale è piuttosto naïf. Le grandi distanze da coprire tanto nella steppa russa quanto nel continente americano necessitavano di mezzi di locomozione efficienti, l’evoluzione agricola si spingeva verso l’efficienza piena da secoli, il mercato produttivo forniva un’offerta inferiore all’effettiva domanda. La modernizzazione sarebbe inevitabilmente arrivata, tuttavia la tutela statale nata col calvinismo portò un’accelerazione brutale di tutto ciò. Anziché avere un modello sostenibile – dal punto di vista sindacalista, ambientale e di risorse in genere – come si era avuto per virtualmente tutta la storia fino a quel momento, la crescita fu esagerata. È indubbio che il livello di crescita fu superiore ad ogni aspettativa in ogni secolo precedente, tuttavia la distribuzione della ricchezza si concentrò in pochissimi individui. Mentre nel medioevo una simile concentrazione di ricchezza sarebbe stata impossibile da tutelare e pertanto sarebbe calata fino al punto economicamente efficiente, la rivoluzione industriale aumentò drasticamente le diseguaglianze.
La risposta allo sfruttamento autorizzato dallo Stato non tardò ad arrivare. I lavoratori si organizzarono in sindacati ed organizzarono scioperi, scioperi regolarmente dispersi dalle forze di polizia proprio a simboleggiare la tutela statale nei confronti degli industriali.
In questo sistema di sfruttamento – ben peggiore degli schiavismi visti nell’Europa continentale – gli operai cercarono qualcosa che permettesse loro di riscattarsi, qualcosa che si rivelò essere il comunismo di Marx. Marx spiegò come il padronato stesse semplicemente sfruttando i lavoratori e che i frutti del loro lavoro non sarebbero dovuti andare agli industriali, ma a loro stessi; ipotizzò sistemi di autogestione di fabbriche e comunità, al fine di vivere liberi da ogni padrone; sostenne il superamento del concetto di proprietà privata dei mezzi di produzione, per poter garantire una reale uguaglianza. Dal “compromesso” tra creazione della ricchezza e ridistribuzione del reddito nell’epoca in cui la proprietà privata andava auto-protetta si arrivò al punto in cui l’unica cosa importante era la creazione della ricchezza, innescando un meccanismo di “autodifesa” auspicante un passaggio alla sola ridistribuzione del reddito. Fu lo sfruttamento nato nella rivoluzione industriale a causare il marxismo ed il sindacalismo.
Dai sindacati in poi la via fu semplice: i lavoratori erano molti più degli industriali, quindi gli Stati furono costretti a scendere a compromessi tra i due, introducendo tutele lavorative quali salari minimi ed orari lavorativi massimi; l’avvento definitivo della democrazia non fece altro che accentuare ulteriormente questo trend. La cosa interessante in tutto ciò sta però nel fatto che è piuttosto oggettivo come l’assenza della rivoluzione industriale – intesa come vera e propria rivoluzione e non come semplice avanzamento – non avrebbe mai permesso lo sviluppo del comunismo e dei socialismi di vario genere; ancor più interessante è come la rivoluzione industriale fu possibile solo a causa dell’intervento statale nella gestione economica, in questo caso a tutela della proprietà privata. Non è una cosa così diretta – seppur pienamente compatibile con l’analisi storica marxiana -, tuttavia la proprietà privata contemporanea fu possibile solo grazie all’intervento statale, vista la perdita di interesse nel proteggere ciò che è proprio. In tutto questo non può non essere evidenziato chiaramente il ruolo di Calvino, quale primissimo incitatore della “ricchezza ad ogni costo” che causò tale intervento statale. Si può dire che Weber aveva ragione riguardo al calvinismo come base primaria del capitalismo, a patto che si accetti la definizione di capitalismo che lo vede come una tutela della proprietà privata possibile solo con lo Stato. Sì, il calvinismo ha causato il capitalismo, ma quel capitalismo della rivoluzione industriale che ha dato vita al socialismo ed al comunismo, sicuramente non il capitalismo propugnato dai libertari ed esistito pacificamente per più di un millennio.
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