Le elezioni presidenziali americane 2020 passeranno alla storia, senza ombra di dubbio, come le elezioni occidentali più controverse degli ultimi 150 anni.
Ciò a cui abbiamo assistito, stiamo assistendo e assisteremo, rappresenta sicuramente una forte minaccia non tanto alla democrazia, quanto alla fiducia che un popolo ripone nello strumento democratico.
Al netto di eventuali brogli, infatti, ciò che sta emergendo da questa tornata elettorale è quanto poco efficace sia il sistema di voto per corrispondenza ovvero quanto sia “semplice” indirizzare un’elezione (qui un approfondimento sul tema).

Tralasciando ogni possibile speculazione, andiamo nel dettaglio di ciò che sta accadendo.
Lo scenario che si andava a configurarsi nella notte italiana durante lo spoglio sembrava condurre ad una facile riconferma di Trump, poiché il Presidente aveva guadagnato un enorme, e quasi incolmabile distacco nei confronti di Biden negli stati chiave: Florida, Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Georgia.
Nonostante il vantaggio, che è arrivato a toccare anche un +11% in PA, Biden ha tenuto un discorso, nel quale si dichiarava più che confidente nell’esito della votazione. Dichiarazioni piuttosto curiose, quasi inspiegabili, se non fosse che alle stesse sia seguita una rimonta con maggioranze bulgare di voti postali, schede ritrovate, un evento elettoralmente parlando assolutamente incomprensibile e ben visibile nell’ormai famoso grafico sull’andamento elettorale in Wisconsin. Allo stesso modo, un altro dato assolutamente anomalo è stato l’incremento di quasi 20 punti del tournout in Michigan, Wisconsin stati in cui non si era mai registrata un’affluenza alle urne superiore al 70, mentre lo scorso martedì si è quasi sfiorato il 90%.
Questo vero e proprio miracolo elettorale si è protratto sino a domenica, quando diversi media hanno proclamato in pompa magna Joe Biden come il vincitore delle elezioni.
Ora, non sta a chi scrive giudicare se ci siano stati brogli o meno.
Il presidente Trump, ha già annunciato che ci saranno riconteggi, alcuni già avviati, e ricorsi sullo spoglio delle schede ricevute via posta, nelle quali quasi il 100% delle preferenze è andato all’ex vice-presidente, ma quel che si può evidenziare, tuttavia è come il (forse) presidente uscente abbia ottenuto il più alto numero di preferenze alle urne del partito repubblicano, un indicatore di come il popolo americano sia stato tutt’altro che scontento dell’operato del tycoon.
Interessante notare anche il ruolo che ha avuto il Libertarian Party. Jo Jorgensen ha ottenuto l’1,2% di voti, pari a circa 1 milione e settecentomila preferenze, e ovviamente 0 grandi elettori. In un sistema elettorale bipartitico, inserito all’interno di un contesto sociale dove ab origine nessun partito terzo ha mai ottenuto un risultato utile a far eleggere un proprio rappresentate a qualsivoglia carica, fa nascere più di qualche perplessità la scelta dei libertari residenti negli swing states di non esprimere un voto utile, in particolar modo per Trump, dal momento che quello Repubblicano è il partito sicuramente più vicino alle posizioni dei gialloneri.

Se ciò fosse accaduto, infatti, il Presidente avrebbe agilmente guadagnato almeno due stati, sufficienti a garantirgli altri quattro anni alla Casa Bianca.
L’alone di incertezza che ancora avvolge queste elezioni difficilmente permette di fare analisi complete, cercheremo comunque di approfondire in maniera più dettagliata lunedì 16 novembre alle ore 21.30, dove parleremo con Carola Mantini, Luigi Ciano, Michele Boldrin di Liberi Oltre e Giacomo Bresolin di Students for Liberty delle elezioni americane, di Stati Uniti, e di tutto quello che c’è in mezzo.
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