di Luigi Ciano e altri
Siamo onesti, l’attenzione dell’elettore, una volta chiuse le urne non era sull’esito di uno dei referendum più scontati degli ultimi anni, paragonabile per ovvietà di risultato solamente alla consultazione sul nucleare del 2011 a un mese dal disastro di Fukushima, ma sulle elezioni regionali, una cartina al tornasole fondamentale per gli equilibri della maggioranza e il proseguo della legislatura.
A livello regionale la sinistra non può che far sue le parole di Plauto “Iam victi vicimus” (già sconfitti, vinciamo) perché – bisogna essere intellettualmente onesti – concludere la giornata con il risultato di 3 a 3, è un risultato che va oltre le più rosee aspettative, soprattutto considerando che è emerso che la silent majority pugliese è ancora propensa a votare l’area democratica. Un risultato che renderà ancor più duro il dibattito sulla nuova legge elettorale e rafforzerà il governo, rendendo quasi impossibile un accordo tra centro destra e democratici.

In Quarto Quadrante abbiamo fatto alcune considerazioni sul perchè di questa vittoria al referendum che, se dovessimo avere un approccio rigorosamente misesiano, considerando quindi l’uomo come essere perfettamente razionale, è difficilmente spiegabile.
La prima considerazione che si può fare è che l’elettorato potrebbe aver espresso la sua preferenza basandosi non sul merito stesso del quesito ma, piuttosto, su indicazione di partito. Nel corso degli anni si è visto come i referendum si siano di solito trasformati in voti di fiducia nei leader politici anche quando la loro ragione formale era ben diversa.Un facile esempio è la riforma Renzi del 2016 o il referendum abrogativo sulle concessioni dei giacimenti in acque territoriali. In altre parole, considerata anche la particolare situazione in cui grava l’Italia e il mondo tutto, sarebbe quanto meno lecito aspettarsi che, in alcune aree, il referendum sia stato strumento di giudizio sul lavoro svolto dall’esecutivo negli ultimi mesi. Se guardiamo i dati, però, questa osservazione sembra non reggere: i due fronti sono risultati abbastanza omogenei per quanto riguarda l’appartenenza partitica, con l’esclusione dei 5 stelle (pesantemente per il si’) e gli elettori di sinistra – sinistra (in leggera maggioranza maggioranza per il no). Sembra quindi che la cleveage su cui si è combattuto il referendum non sia questa.

La seconda possibilità è che l’elettore abbia votato di “pancia”. Un segno di sfiducia verso la classe politica tutta, che negli ultimi decenni si è relazionata con l’elettore più con un do ut es (spesso disatteso, tanto dagli elettori quanto dagli eletti) che su temi e princìpi. Una spiegazione un po’ semplicistica, che presuppone che l’elettore si sia rifiutato di affrontare nel merito la questione ma abbia deciso sulla base di informazioni frammentarie e/o distorte.
La terza considerazione è che l’elettorato potrebbe non aver affrontato semplicemente la scelta di far passare o no la riforma, ma che abbia affrontato il voto con un approccio olistico; un’ulteriore riforma costituzionale bocciata dal referendum avrebbe reso più difficile il percorso delle riforme, aumentando ulteriormente il costo politico di proporle. Questa è la posizione, tra l’altro, di una parte dell’accademia liberale, tra cui il prof. Lupo, docente di diritto parlamentare della LUISS. Per questi elettori, distruggere il feticcio intoccabile della “più bella del mondo” potrebbe essere stato considerato prioritario rispetto alla bocciatura di una riforma oggettivamente carente sotto molti punti di vista. Questa posizione spiegherebbe anche i dati sulla distribuzione partitica, dove le aree più conservatrici sul tema della Costituzione si sono rivelate maggiormente a favore del no e quelle più riformiste più a favore del sì. Il sì al referendum, quindi, andrebbe visto in un’ottica positiva, dato che potrebbe essere l’apertura di una stagione di riforme, che attendiamo dai tempi di Craxi; tuttavia il problema della fiducia – sia da parte dell’elettorato verso le istituzioni che viceversa, non si risolve con un taglio dei parlamentari, ma è necessario qualcosa di più. Forse, come sostiene lo storico Giovanni Orsina, servirebbe, in primis, una maggiore serietà in tema di riforme costituzionali, tanto da parte di chi propone riforme che spesso si rivelano scritte (e pensate) male, quanto da chi le avversa per una questione meramente ideologica.