La Marmolada si scioglie? Ok, ma..

Parlare di rischio zero in alpinismo è come parlare di efficienza nella pubblica amministrazione, una chimera.

Chi pratica questa disciplina è cosciente dei rischi che si corrono e (dovrebbe) essere preparato ad affrontarli. Dopo tutto, eccezion fatta per poche grottesche figure, chi mai si sognerebbe di appendersi a una parete verticale senza sapere cosa fare?

Il mondo dei frequentatori della montagna si divide in tre macro gruppi:

  1. i c.d. “merenderos” i classici gitanti della domenica che, armati di panino con la frittata, vogliono passare una piacevole domenica all’aperto lontani dal caos cittadino;
  2. gli escursionisti, frequentatori della media montagna, che praticano un’attività che non prevede conoscenze alpinistiche, attività che effettivamente può esser svolta (quasi) da chiunque;
  3. gli alpinisti, amanti della verticalità e frequentatori dell’alta montagna. A quest’ultimo gruppo appartengono le persone che hanno frequentato corsi, sono accompagnati da Guide Alpine e che amano vivere la montagna a 360 gradi.

Da questa semplicistica classificazione, si può ben capire come ogni categoria sia soggetta a rischi oggettivi diversi, fare un aperitivo a Campo Imperatore è ben diverso che scalare la cresta dell’Innominata al Bianco, ma anche di fare una passeggiata al Gran Sasso.

La tragedia della Marmolada ha visto coinvolti esclusivamente Alpinisti, più o meno esperti, e non escursionisti come spesso si sente nei talk televisivi. Persone quindi, ben consapevoli di affrontare un percorso dove dei rischi sono presenti.

Ma cosa è successo alla Marmolada? Premesso che chi scrive non ha la pretesa di definirsi un esperto di nivologia, né tantomeno è un tecnico AINEVA, ma solo di definirsi un mediocre alpinista, un’analisi un po’ più oggettiva e non di pancia può presentarla.

Il caldo clima estivo sta lasciando segni molto evidenti su molti, ma non tutti, ghiacciai alpini. L’impietosa ritirata del Mer de Glace ne è forse l’esempio più evidente, ma analoghe ritirate si possono vedere distintamente sul ghiacciaio di Indren, mentre ritirate “storiche” sono estremamente evidenti nella Val D’Ayas dove vallate ricche di detriti hanno preso il posto di antiche lingue di ghiaccio. 

Effetti, questi, visibili dalle vallate, mentre per chi si trova a frequentare questi luoghi gli effetti delle ondate di caldo si manifestano in altre forme, rendendo oggettivamente più pericoloso l’attraversamento. Su tutti il crollo dei ponti di neve, vere e proprie piattaforme naturali che collegano due lati di un crepaccio, e l’affioramento del ghiaccio “vivo”, la pelle vera e propria del ghiacciaio che dovrebbe esser nascosta dalla neve.

E i seracchi? Sono anche loro causati dal clima? Assolutamente no.

Il seracco è una parte integrante del ghiacciaio, cosi come i crepacci, e la neve che può avere due origini, accumulo nevoso diretto, neve spinta dal vento che si accumula su una parete, oppure nascere da una frattura del fronte glaciale.

Ricordiamo, infatti, che il ghiacciaio è un corpo vivo che viene spinto dalla forza di gravità verso il basso e quando la spinta è superiore alla forza elastica del ghiaccio, si creano fratture, i crepacci appunto. Questo significa che anche se  vivessimo su Plutone a -80° ogni giorno, i ghiacciai avrebbero dei crepacci, riempiti di neve non sciolta, certo, ma sempre presenti.

E come si distacca un seracco? A differenza delle valanghe, prevedibili da studi oggettivi, il crollo del seracco avviene per gravità. Immaginatelo come una mensola appesa al muro, ad ogni barattolo che viene poggiato il peso che grava sugli stop aumenta, sino al punto di rottura.

Certamente una maggior lubrificazione, dovuta allo scioglimento della neve, può facilitare il distacco, ma dare, nel caso specifico la colpa al clima significa affermare “mi si è rotto il motore della macchina perché avevo le gomme sgonfie”. I seracchi per loro natura cadono e cadranno sempre, di giorno e di notte (come sul Grand Combin la scorsa notte) d’estate e d’inverno come quelli che quasi quotidianamente si staccano ovunque.

E’ ovvio che agli occhi di una persona che non frequenta questi luoghi  la soluzione più semplice e ovvia sia quella di chiudere, lockdown della montagna visto che ormai siamo abituati, ma la realtà è un’altra. Difficile da digerire per chi da due anni a questa parte vive con la litania quotidiana del rischio zero, del vivere la vita nella propria bolla protetti da qualsivoglia pericolo. La vita va vissuta e i pericoli valutati e, nel caso specifico, se non si è in grado di farlo da soli affidarsi a Guide Alpine. Se per una parte della popolazione vivere significa accettare il rischio, che sia scalare una montagna, far parapendio, fare il bagno senza aspettare le 3 ore post pranzo, nessun burocrate statale dovrebbe impedirlo. 

La responsabilità personale, dovrebbe essere ciò che guida la volontà di una persona non le decisioni coercitive di staliniana memoria.

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