Perché la presa della Bastiglia è ancora attuale?

Tra le dicotomie più rilevanti nella storia c’è di sicuro quella tra l’ideologia e la realtà. Cioè in termini più semplici la differenza tra chi adegua le proprie idee alla realtà e tra chi invece adegua la realtà alle proprie idee. Tra questi ultimi possiamo sicuramente annoverare i rivoluzionari francesi e gli illuministi come Robespierre, Voltaire e Turgot, dall’altra i classici del conservatorismo politico che analizzarono gli effetti della rivoluzione francese. Tra questi ovviamente c’è Edmund Burke ed il suo monumentale Riflessioni sulla rivoluzione francese, un’opera che come tutti i capolavori acquisisce una luce sempre nuova col passare dei tempi in quanto diviene sempre piu vera, o meglio reale. Secondo il filosofo inglese la presa della Bastiglia e le sue conseguenze rappresentano la morte stessa della civiltà europea: “qui la gloria dell’Europa giace estinta per sempre”. Questo perchè la rivoluzione si basava su nozioni puramente astratte: la libertà anziche le libertà declinate al plurale, il laicismo al posto della laicità, il razionalismo contro la ragione e soprattutto lo Stato che sostituisce la Società. E’ questo il nodo decisivo secondo Burke che ci permette di analizzare cosa è successo nel 1789, cioè l’edificazione di un Dio assoluto in Terra, cioè lo Stato, che tutto vede, tutto regola, tutto decide e tutto fa. Tutto questo in nome del collettivo o meglio dell’umanità, cioè la depersonalizzazione dell’individuo che diviene proprio per bocca degli stessi rivoluzionari “un punto diviso in egual spazio dagli altri punti dentro un quadrato perfetto”. La prima conseguenza di questa idea di società, o meglio di come distruggerla, è quella che il filosofo-politico italiano Cattaneo chiama “la sindrome di Richelieu”, cioè un solo sole, una sola verità, una sola legge deve guidare tutta la nazione, oggi, e tutta l’umanità, domani. In poche parole l’accentramento del potere nelle mani di poche persone, ovviamente autoproclamatosi “illuminate”, riunite nella città-sole, in questo caso Parigi. Da li parte la Francia ma anche finisce, perchè qualsiasi altro francese deve divenire parigino, quindi rivoluzionario. Chi si oppone va eliminato, non solo fisicamente ma anche storicamente: è il caso della Vandea, ma anche della Bretagna o della Corsica. La sottomissione di qualsiasi altro popolo che non fosse quello della capitale secondo Burke è il seme stesso dell’ideologia giacobina: l’annientamento di qualsiasi differenza per edificare una società organica, termine ripreso da Platone e poi riutilizzato da Mussolini ed Hitler. Insomma la rivoluzione francese fu il germe, il seme da cui è nato il totalitarismo? Secondo Burke si, sebbene lui poi per ovvie ragioni non ne ha visto gli sviluppi. Ma neanche le resistenze e le opposizioni la cui piu importante nacque proprio a Parigi, cioè la Comune, “che restituì la realtà e la società agli uomini contro il demone dello Stato”. Questo non lo scriveva Burke ma bensì Marx che diede un giudizio diametralmente opposto a quello del suo pupillo Engles alla esperienza comunarda che invece la giudicava come un covo di vandeani e di briganti.

Quando la Francia è uscita dagli europei, qualche settimana fa, il resto di Europa ha gioito, soprattutto l’Italia eppure ci si puo chiedere legittimamente se la Francia non sia in realtà cosi odiata perchè ormai dentro di noi. L’Italia giustizialista, centralista, giacobina, legalitaria e probabilmente nel futuro prossimo laicista non è la copia, peraltro brutta, di una società basata sulla sindrome di Richelieu. Per questo la rivoluzione francese è ancora tra noi, anzi molto di più di come lo era prima. E l’insegnamento di Burke necessita di nuovi allievi.

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