I Reform Acts inglesi. Ad inizio 800 nella democratica Inghilterra c’era un sistema di voto antiquato secoli e il suffragio universale era una chimera.
Per farla breve, i Lords (i nostri senatori) venivano eletti in base a circoscrizioni territoriali che dipendevano non tanto dalla densità abitativa dei centri abitati ma da come i vari terreni erano stati divisi in epoca medievale. Succedeva, quindi, che zone pressoché deserte eleggevano un paio di lords e zone molto più abitate nessuno: c’era un chiaro problema di rappresentanza che l’opinione pubblica inglese, nel pieno della rivoluzione industriale (che vedeva crescere centri come Manchester o Liverpool) non poteva più tollerare. Ne seguirono violenti scontri in tutto il paese, anche politici: i Whig, l’ala paleoliberale del parlamento britannico, riusciva quasi sempre a far passare la riforma nella Camera bassa che, però, puntualmente veniva bocciata dalla House of Lords. Si arrivò a un compromesso nel 1832 con il primo dei Reform Acts, in cui, tra le altre cose, si riscrivevano i confini territoriali delle circoscrizioni elettorali spingendo la rappresentanza in parlamento dove effettivamente la densità abitativa era più alta.
Il primo fondamentale milestone verso il suffragio universale era stato messo. Disraeli e Gladstone poi legarono il diritto di voto anche al possedimento di beni privati, in qualche modo legando la rappresentanza alla capacità di produrre ricchezza e, se volete, a quella di pagare le tasse (“no taxation without representation”).
Sono davvero cosi tanti i nostri parlamentari? Perché vi racconto questa storia? Bene, perché il referendum che siamo chiamati a votare nelle prossime settimane va esattamente in senso contrario ai Reform Acts ottocenteschi. Guardiamo i numeri attuali: confrontando gli stati con un numero simile di abitanti al nostro (Francia, Germania, Regno Unito, Spagna) vediamo che effettivamente il rapporto abitanti/deputati è simile solo con UK (100k abitanti/deputato), mentre gli altri paesi hanno una rappresentanza più ridotta (Germania e Francia 117k, Spagna 133k). Se passasse il referendum il rapporto italiano salirebbe a 151k, e avremmo quindi la minore rappresentanza parlamentare d’Europa.
C’è poi un problema più raffinato: come si vota negli altri paesi? In Italia si fa una crocetta sul nome del candidato (indipendentemente che sia deputato o senatore) e chi ha più voti vince venendo eletto secondo la ripartizione fornita dalla legge elettorale vigente, definendo il nostro come un sistema di elezione di tipo diretto. In Francia per esempio non è cosi nella Camera alta: il senatore è eletto per via indiretta, cioè viene votato dai deputati e dai senatori presenti in quel collegio, dai consiglieri regionali di quel dipartimento e dai consiglieri municipali e loro delegati. Alla fine dei conti per eleggere 348 senatori servono 157000 persone! Anche in Spagna ci sono sistemi simili per il Senato, mentre in Germania la composizione della Camera ha numerosità variabile perché dipende dal risultato delle elezioni in termini di premio di maggioranza. Vediamo quindi che il raffronto numerico triviale tra i vari paesi è fine a se stesso.
La riforma del parlamento ci riporta all’Inghilterra pre-industriale. C’è una cosa che hanno in comune però i vari paesi (e qui ci si ricollega ai Reform Acts inglesi): tutti hanno un legame diretto con la densità delle circoscrizioni territoriali. La riforma che siamo invece chiamati a votare, invece, lascia invariate le regole di assegnazione cosi che ci sarebbero delle Regioni sovrarappresentate. In questo modo si avvalora una classica massima liberale ovvero che l’estensione di un paese diminuisce proporzionalmente l’importanza politica che spetta a ciascun individuo: l’esempio lampante è quello del Trentino Alto Adige che con un seggio ogni 147k abitanti passerebbe ad avere un seggio ogni 171k, contro per esempio il Piemonte che da 198k abitanti per seggio passerebbe ad avere 311k abitanti per seggio. A conti fatti il 30% dell’elettorato piemontese non verrebbe più efficacemente rappresentato. La cosa è grave perché renderebbe la normale discussione democratica un continuo tentativo di accondiscendere i seggi delle regioni più piccole a discapito delle regioni più popolose: nell’800 si diceva che il Duca di Newcastle era tra i proprietari del paese, noi tra un mese potremo dirlo col senatore trentino o valdostano.
Una riforma per prendere voti, nulla di più. E’ evidente che questa riforma non sta in piedi, manca di coerenza, è pura strategia populista per incrementare il proprio bacino di voti: senza una riforma elettorale ad hoc (pensiamo a un proporzionale puro per esempio) con suddivisioni più assennate delle circoscrizioni, il tutto si ridurrebbe solo a una effimera riduzione della spesa pubblica che come ha ricordato Emma Bonino qualche giorno fa è poca cosa se confrontata ai soldi spesi per Alitalia o per Quota 100.
La prima libertà dell’uomo è quella politica. L’esercizio dell’espressione di voto è la più grande libertà che l’essere umano si è concesso. Limitarne anche solo parzialmente una parte per motivi di spesa corrente.. beh, è semplicemente idiota: costringiamo il Parlamento ad essere solo un teatrino tra politici, convinciamo cosi il Presidente del Consiglio a legiferare attraverso DPCM, entriamo nell’ottica che la solfa del “meglio pochi buoni che tanti che non capiscono” sia accettabile (chi deciderà poi che i migliori verranno eletti in luogo dei meno meritevoli?).
Benjamin Constant: un faro per chiunque voglia bene alla Respublica. A tutti consiglio la lettura del passo più bello che sia mai stato letto in una sede pubblica, ovvero il discorso delle libertà degli antichi di Benjamin Constant il quale, cercando di far capire quanto il giacobinismo avesse distrutto gli ideali riformatori illuministi e portato la Francia all’Impero assoluto di Napoleone, ammoniva sulla mancanza di senso di libertà politica dei cittadini di Francia di metà 800:
“Chiedetevi innanzi tutto, Signori, che cosa intendano oggi con la parola libertà un inglese, un francese, un abitante degli Stati Uniti d’America. Il diritto di ciascuno di non essere sottoposto che alle leggi, di non poter essere né arrestato, né detenuto, né messo a morte, né maltrattato in alcun modo a causa dell’arbitrio di uno o più individui. Il diritto di ciascuno di dire la sua opinione, di scegliere la sua industria e di esercitarla, di disporre della sua proprietà e anche di abusarne; di andare, di venire senza doverne ottenere il permesso e senza render conto delle proprie intenzioni e della propria condotta. Il diritto di ciascuno di riunirsi con altri individui sia per conferire sui propri interessi, sia per professare il culto che egli e i suoi associati preferiscono, sia semplicemente per occupare le sue giornate o le sue ore nel modo più conforme alle sue inclinazioni, alle sue fantasie. Il diritto, infine, di ciascuno di influire sulla amministrazione del governo sia nominando tutti o alcuni dei funzionari, sia mediante rimostranze, petizioni, richieste che l’autorità sia più o meno obbligata a prendere in considerazione.”
Bene, tutto questo, se passa il SI al Referendum del settembre prossimo sarà molto meno possibile.
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