A Sanremo (alla fine) ha vinto la normalità

Mara Venier nello show domenicale post festival rivolgendosi a Chiara Francini, una delle co-presentatrici di Sanremo 2023, quasi le sussurra per paura di polemiche “Brava perché sei una persona normale in un momento in cui essere normali è stravagante”, o qualcosa del genere. Ha assolutamente ragione: Sanremo 2023 è stato l’Apokolokyntosis del progressismo, con un numero incredibile di luoghi comuni toccati e discussi dai protagonisti da far passare in secondo piano la gara musicale.

Amadeus, l’uomo senza qualità per eccellenza, raggiunge vette di share mai eguagliate nella storia del festival e, sebbene il numero massimo di spettatori non sia tra i più alti, per la TV di stato tenere oltre il 60% dei telespettatori incollati allo schermo per ore (25 ore di diretta non sono poche) in un mondo pieno di TV commerciali e satellitari è tanta roba: il problema è che per fare ciò ha dovuto riempire lo show di personaggi woke, di tematiche iper-politicizzate e dare un taglio di melenso paternalismo a storie altrimenti inascoltabili.

Cosi succede che la Ferragni (la donna del successo digitale da milioni di follower) passa le serate a proporsi con improbabili outfit sessualizzati (nude-look dipinti, corazze da amazzoni con capezzolo in vista, collane uterine che ricordano la Venere di Willendorf) proponendo un monologo sterile stile tema delle medie in cui si fa gli applausi da sola; che il marito Fedez viene “costretto” (ah non è violenza sessuale?) dal cantante gender-fluid Rosa Chemical a un bacio saffico sul palco dell’Ariston durante la sua esibizione per pentirsene subito dopo visibilmente scosso (e quasi in lacrime); che la pallavolista azzurra Egonu dall’alto dei suoi contratti milionari si mette a raccontare della sua infanzia complicatissima e il razzismo che ne ha impedito la crescita (d’altronde come ricorda giustamente Giordano è in nazionale da quando ha 16 anni e ha deliberatamente scelto di abbandonare il Veneto razzista per andare nella liberale e cosmopolita Costantinopoli mussulmana). Tutto finanziato da soldi pubblici, ovviamente.

Per non parlare delle cantanti donne talmente a loro agio nei loro panni di sudditi del pensiero unico progressista che non finiscono manco tra i primi 5, come (ironicamente?) fatto notare dal vincitore Marco Mengoni.

Ecco, Mengoni: kermesse stravinta su tutta la linea, battendo una concorrenza limitata solo al deprimente Ultimo che – nomen omen – per sua ammissione parla alle generazioni che si piangono addosso, proprio la Z figlia dei late boomers, cresciuta con l’educazione civica dell’agenda 2030 della scuola pubblica e perchè gli altri devono farsi carico di tutti, mica devi tirarti fuori da solo dai problemi, che scherzi?

L’individualista Mengoni che duetta con un coro gospel, che è gay ma non lo dice, che è a suo agio sul palco tra un sorriso imbarazzato e un saluto al pubblico ha trionfato nella più totale normalità: si è limitato a vincere perchè come ho letto oggi “la spazzatura ha perso, come nella vita: fa tanto casino, indigna alcuni, esalta i tonti, poi scompare”. Niente di più chiaro.

La normalità è vedere anche un triste Morandi che spazza con la scopa le rose devastate dalla follia devastatrice di Blanco, vincitore dell’anno scorso, motivate da un problema tecnico che gli ha impedito di esibirsi in un raptus di onnipotente libertà positiva: giustificato da Grignani per l’età, redarguito da Al Bano che ricorda che i fiori si omaggiano, non si calpestano. Ovvietà che però a Sanremo non è più di moda.

Di sicuro normalità è assistere alle lezioni di femminismo pragmatico di Chiara Francini, signora d’altri tempi dal peso specifico colossale e buttata dalla RAI alle due di notte che non sia mai che offusca l’altra Chiara, quella ingombrante delle lezioni aride di TikTok ad Amadeus e Morandi, in un siparietto triste e avvilente.

Normale è anche vedere che la canzone col miglior testo l’ha vinta il duo (maschile, ancora) Colapesce e Di Martino in cui si tratta del difficile tema della convivenza con qualcuno che non evidentemente non si vuole più, o della storia d’amore tra i Coma_Cose (etero, novità) che andranno a sposarsi a breve.

E’ stato anche il primo (e spero unico) festival con il Presidente della Repubblica invitato d’onore, con la lezione della Costituzione più bella del mondo del compagno Benigni che chiaramente ha glissato sullo standby delle libertà costituzionali durante il periodo pandemico (cucù, te lo ricordi il Green Pass?) e con la banda a cantare l’Inno di Mameli nella serata finale, in un clima ligure tipicamente nordcoreano.

Per fortuna poi ha vinto il team normalità capitanato da Mengoni, perché come in tutte le storie, alla fine tutto è bene ciò che finisce bene.

(immagine credits: informazione.it)

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